Quando l’Unità ha chiuso, l’assemblea dei redattori e delle redattrici dello storico giornale ha pubblicato un duro comunicato sull’ultimo numero, in .pdf, spiegando i motivi che avevano portato l’editore ad abbandonare un’impresa iniziata non tanto tempo prima. Simbolico il titolo: “Così si calpesta una storia”. Anche perché era il 2 giugno del 2017, Festa dei Lavoratori.


“Questa storia, la nostra, hanno deciso di chiuderla nel modo peggiore, calpestando diritti, calpestando lo stesso nome che porta questa testata”. L’editore, alle 22.49 del 1° giugno, aveva comunicato con una lettera che avrebbe incontrato la Federazione nazionale della stampa, Stampa Romana e Cdr per illustrare la situazione economico-finanziaria del giornale e la “conseguente decisione di interrompere volontariamente la pubblicazione”.

 

Da giorni il quotidiano non era in edicola perché lo stampatore si era rifiutato di stamparlo a causa dei mancati incassi dei crediti. Eppure, in redazione, si era continuato a ‘fare’ il giornale, pur sapendo che nessuno l’avrebbe sfogliato. O soltanto gli abbonati al sito (che però non riuscivano a scaricarlo). L’azienda? Niente stipendi, senza comunicazione. Ancora il CdR: “La stessa azienda che in due anni non ha presentato un seppur minimo piano industriale, ha solo più volte minacciato licenziamenti collettivi”. Non pensate a un’Unità ancora di proprietà comunista. Al Partito Democratico era rimasto il 20% delle quote attraverso la fondazione Eyu. Il resto ai privati, a cominciare dalla Piesse di Massimo Pessina e di Guido Stefanelli. Privati che “hanno ricattato i sindacati a non pagare gli stipendi fino a quando lo stesso cdr non avesse convinto gli ex dipendenti a rinunciare ai loro diritti sanciti dal giudice del lavoro”.

 

Il nome Pessina torna, in modo preoccupante, anche nella crisi dell’acqua Sangemini. Si attendeva il 19 settembre per ascoltare il piano industriale che sarebbe dovuto essere presentato dalla proprietà in Confindustria, ma l’azienda ha dato buca. Lasciando dunque una situazione di paura e di attesa nello stabilimento umbro, dove 30 lavoratori su 90 rischiano la cassa integrazione. Il Piano industriale dei Pessina avrebbe dovuto rilanciare marchi, produzione e presenza sul mercato delle acque minerali. Un impegno assunto nel 2014.

 

A inizio ottobre, alcuni dipendenti hanno scritto una lettera aperta: “Le incertezze rimangono. Alla gente comune diciamo che questa azienda non è stata acquistata pagando i debiti, acquisendo diritti di ogni genere, ma è stata rilevata in concordato, quindi pagata in parte anche dai fornitori e dagli operai lasciati fuori dai cancelli”. Gli accordi, al momento dell’acquisizione, erano di mantenere i 95 occupati al loro posto: “malgrado ciò, noi siamo preoccupati, intanto perché sono stati disattesi gli impegni sulle vendite, evidenziando una pericolosa inaffidabilità”. E il futuro? “Si palesano investimenti che, secondo noi, oltre a non essere lungimiranti, porterebbero inevitabilmente  a difficoltà sia gestionali che di programmazione, tali da far dismettere alcuni marchi con le conseguenti ricadute occupazionali negative”.

 

Il gruppo Pessina darà una risposta concreta e positiva? O anche alla Sangemini arriverà una lettera come all’Unità? Ricordiamo per chi non lo sapesse che i fratelli Carlo (amministratore delegato) e Massimo (presidente – qui in foto) sono le figure chiave del gruppo.

 

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